I muri sono sopravvivenze. Gli intonaci segnati dalle intemperie, “lavati” e sbiaditi dal sole, seppur materia inerte sono vivi e palpitano, fungono da metafora e da riverbero dell’esistenza umana.
Il loro fascino scaturisce dall’immediatezza espressiva delle superfici, che rende partecipi di un’esperienza emotiva e sensoriale, come succede anche certi davanti ai vecchi portoni, con le loro ferraglie arrugginite e le vernici che si sfogliano ad ogni stagione, creando tavolozze tattili e spontanee. Sono “presenze” arcane che con la loro nuda materialità evocano il dissidio tra rudezza e poesia che ingombra l’animo umano.
O forse, più semplicemente, la vita vissuta e subita dei muri mi incanta perché è l’antitesi del mio esercizio pittorico, saldamente radicato nel figurativo e nel dato epidermico della realtà, che certo non rinnego – per volontà e vocazione – ma che vorrei anche all’occorrenza saper trascendere, eclettica, senza tradire.
Mi piacerebbe imparare dalla materia vissuta quel coraggio che serve per conquistare la leggerezza della casualità, e rinnegare per una volta la tirannia dell’ordine e della regola. Mi piacerebbe, ma non sono affatto certa che esista possibilità di incontro tra queste due inconciliabili aspirazioni.
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