Dolenti custodi della memoria, resistono alle intemperie, al vento, al sole, alla ruggine, all’inesorabile lavoro dei tarli: sono le porte che nessuno apre più, quelle che restano a ricordarci che c’è stato un tempo prima di noi e che un altro, con la stessa leggerezza, verrà.
Nei piccoli centri non si abita più, le opportunità vivono altrove, ai piedi dei grandi palazzi, nei viali gremiti di vita e rumore. I sogni, si sa, abitano le metropoli, i passi delle folle, le vetrine e la frenesia del tempo.
Eppure, forse senza saperlo, nello spirito abbiamo tutti il silenzio di un paese che ci appartiene e a cui apparteniamo; è un luogo fisico e uno spazio interiore, è entrambe le cose; è quello a cui abbiamo rinunciato e che, forse, dovremmo invece recuperare per ritrovare il senso della vita che sfugge.
Partendo, vivendo, inseguendo ostinati la felicità altrove, una, cento, mille porte si aprono e si chiudono al nostro passaggio, segnando ogni volta nella storia di ciascuno una linea di confine da cui non c’è ritorno. Un valico simbolico che una volta superato non ha rimedio.
Le porte restano, ci sopravvivono, ricordano ad altri del nostro passaggio. Così, almeno, raccontano le porte lucane.
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